martedì 18 novembre 2014

I Masai sfrattati dagli sceicchi arabi

Ai principi degli Emirati piace la caccia e il governo della Tanzania ha dato lo sfratto ai pastori guerrieri. Dovranno lasciare le loro terre entro fine anno con meno di 500mila euro in tasca: «Neanche in contanti, ma sotto forma di progetti di sviluppo»

Corriere della Sera, martedì 18 novembre 2014

I Masai contro Dubai, ultimo atto: nel cuore dell’Africa, vicino al famoso parco nazionale del Serengeti, gli emiri cacciatori del Golfo stanno per sfrattare i pastori guerrieri che abitano da sempre la savana e le montagne.
Il governo della Tanzania ha ordinato ai Masai di sloggiare entro fine anno dalle terre intorno a Loliondo. Il motivo? Far posto a una riserva di caccia da 1.500 chilometri quadrati che servirà i principi degli Emirati e i loro ospiti. Oggi i rappresentanti Masai incontreranno il primo ministro Mizengo Pinda, che si è rimangiato una promessa fatta un anno fa. Il governo di Dar Es Salaam si era impegnato a recedere dal piano che offriva i diritti sulla terra (per un prezzo ignoto) all’agenzia turistica Ortelo Business Corporation (Obc), compagnia legata ai regnanti di Dubai che organizza safari di lusso in una delle aree faunistiche più ricche del continente.
Il piano è stato ripreso: il governo offre ai Masai sfrattati meno di 500 mila euro di compensazione. Neanche in contanti, ma sotto forma di progetti di sviluppo. «Quella terra non ha prezzo – dice al Guardian Samwel Nangiria, coordinatore della Ong locale Ngonett —. Gli avi dei Masai, le loro madri e le loro nonne, sono sepolti là».
Avi e mucche da latte: l’allevamento del bestiame è la prima fonte di sostentamento della comunità. Lo sfratto, dicono gli attivisti, sconvolgerebbe la vita di 40-80 mila persone. Interi villaggi, quasi la metà del territorio di Loliondo. Negli anni scorsi le donne sono state in prima linea nella protesta. Cosa eccezionale, in una cultura in cui tradizionalmente primeggiano i maschi. Proprio a Loliondo, dove la Obc è presente da vent’anni con i suoi safari (a cui hanno partecipato altri reali come il principe Andrea d’Inghilterra), molti uomini Masai già lavoravano come addetti alla sicurezza in una tenuta di caccia più piccola già esistente. La vendita del latte è affidata soprattutto alle donne. E sono state loro ad alzare la voce contro l’esproprio di una intera regione che corrisponde a un quadrato di 40 km per 40: nell’aprile scorso le donne Masai si tassarono per poter mandare alcune rappresentanti nella capitale e difendere i loro diritti ancestrali (che non figurano al catasto).
La mobilitazione dal basso, amplificata a livello mondiale dalla campagna Web (due milioni di firme su Avaaz.org), sembrava aver dato frutti. Quello della Tanzania è stato descritto come una storia di successo, un caso da manuale su come affrontare il land grabbing (grandi estensioni sottratte alle comunità locali a vantaggio di investitori esteri). «Ora ci sentiamo traditi – accusa l’attivista Nangiria – Il governo ha finto un passo indietro aspettando che la pressione internazionale calasse. I Masai perderanno la terra, gli emiri verranno a cacciare elefanti».
Anche se molti Masai sono cacciatori di frodo (per esempio in Kenia), il problema degli elefanti in Africa (100.000 uccisi negli ultimi 3 anni) è il commercio illegale di avorio alimentato dal mercato asiatico. A confronto gli emiri in cerca di trofei possono considerarsi dei conservazionisti. Se mettono a rischio la vita degli umani il discorso cambia. Nel 1959 i britannici cacciarono i Masai da quello che sarebbe diventato il Parco Nazionale del Serengeti. Adesso si annuncia un nuovo sfratto. La natura sarebbe forse meglio preservata. Ma gli umani? Meglio una gazzella in più o una mucca Masai?
Michele Farina

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