venerdì 30 settembre 2016

I “quasi morti” delle metropolitane di Tokyo fotografati da Michael Wolf


Che Tokyo e il Giappone tutto fosse uno dei paesi più popolati al mondo è storia antica; ma quanto ha denunciato Michael Wolf con “Tokyo Compression” supera anche la più fervida immaginazione.


Il fotografo, nato in Germania e adesso residente tra Hong Kong e Parigi, porta a compimento un progetto fotografico dal forte impatto visivo e immediatamente dopo emotivo; le sue fotografie evidenziano il normale e quotidiano svolgersi dei fatti in una ordinaria giornata presso la metropolitana di Tokyo. Maggiormente nelle ore di punta la metropolitana si trasforma nell’ultimo posto in cui vorresti essere e no, non solo perché molto probabilmente devi arrivare al lavoro o a quell’appuntamento che proprio non hai potuto evitare ma perché rischi di non respirare più, di sentirti morire.


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Nello specifico, i vagoni accolgono un numero di persone talmente elevato da trasformarsi in luoghi pericolosi in cui non vi è la possibilità di muovere un braccio fino al punto di schiacciare il proprio viso al finestrino. Osservando le fotografie la prima cosa a cui ho pensato, dopo aver provato un senso di angoscia nel tentare di immedesimarmi in quelle persone prive anche dell’aria per respirare, è stata disumanizzazione. Può una persona essere costretta a vivere quotidianamente un tale stress? Una metropoli come Tokyo non fronteggiare una tale situazione?


Visi che diventano tutt’uno col finestrino, corpi schiacciati l’un l’altro, nessun confine personale, nessuna intimità, aria rarefatta e non sufficiente per il numero di persone presenti; e, nonostante tutto, costretti a vivere tutto ciò perché il lavoro chiama e bisogna rispondere. Donne e uomini sofferenti, boccheggianti, con espressioni facciali che chiedono aiuto, annaspando in uno spazio vitale ridotto al minimo, da sembrare morti e inscatolati come sardine, ammassati senza ritegno.


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Michael Wolf da sempre si dimostra attento osservatore di dinamiche sociali che denuncia con tutti i mezzi a suo disposizione, primo fra tutti quello fotografico che produce una forte risonanza per via dell’immediatezza visiva con cui fa giungere il messaggio allo spettatore; diretto e violento come un pugno nello stomaco, doloroso come uno schiaffo in pieno viso, pronto a risvegliare le coscienze dal torpore in cui spesso ci avvolgiamo fatto di pressioni dal mondo esterno, di tempistiche da rispettare, in una estenuante e priva di senso gara al raggiungimento di un fittizio equilibrio vitale.


Un progetto fotografico che è un po’ uno specchio del momento storico-sociale che stiamo vivendo, una corsa contro il tempo che ci fa perdere contatto con noi stessi.